L’idea verticale del mondo fino alla vetta, l’uomo di pianura «si arrampica», il climber «arrampica». Cade la forma riflessiva, il verbo si assolutizza. Perde senso quel cenno a un’egolatria spicciola e autoriferita, retaggio fanciullesco. L’arrampicata, con il suo brivido, non sconvolge solo le leggi della fisica e della gravità, ma anche quelle della grammatica. È la sua natura di provocazione totale. Non ci sei tu, c’è l’uomo e la natura: arrampicare significa tentare la sfida verticale in un tempo eterno e immutabile, che scatta quando «metti le mani sulla roccia» (per citare Erri De Luca, scrittore e climber di valore). Si crea un rapporto biunivoco irripetibile. Risuona un’eco primitiva da Excalibur; non c’è presente, non c’è passato. La memoria non esiste, ogni particella si concentra sulla montagna e su movimenti che siano degni e appropriati. Senza sprecare forze e senza sbagliare i passaggi. E, a poco a poco, la rivelazione: è la montagna che arrampica chi la scala.
Non a caso il primo scettico è il più grande climber del mondo, Adam Ondra, il 25enne di Brno, secondo cui le caratteristiche di un velocista e di un cultore delle difficoltà sono completamente diverse. E il criterio della combinata rischia di non premiare il vero talento verticale. L’approdo olimpico resta comunque un grande riconoscimento per questa disciplina figlia dell’alpinismo. Ma l’arrampicata può anche rimanere quel mondo a sé che è sempre stata. Un ecosistema climber-montagna per godere di una natura altrimenti invisibile, in nome del richiamo ancestrale alla salita, alla sfida della gravità. Un cimento tanto inutile quanto irrinunciabile e forse per questo, alla fine, degno di valere la vita stessa (almeno alle origini). È un altro dei grandi paradossi di una disciplina nobile e folle che, comunque, oggi si applica in condizioni di massima sicurezza.
È un modo per conoscere i propri limiti, per disciplinarsi e magari per trovare la stima di sè. Ed è forse per questo che sono fiorite palestre di roccia un po in tutte le città e per tutte le età fino a diventare anche materia di studio nelle scuole. La mente ha più limiti del nostro stesso corpo: è un’altra delle lezioni del free climbing, efficace proprio quando riesce a superare i blocchi mentali. L’arrampicata destruttura la lingua, la fisica e il movimento: quando si comprende che sono le gambe a fare la salita e non le braccia, si passa dall’idea mentale dell’aggrapparsi per sopravvivere a quella corretta dell’ascensione in parete per divertirsi. E, alla fine, è anche un atto di fede. Nella tecnologia che si usa, dalla corda agli spit nella roccia, dalla catena a cui ci si appende per la discesa ai rinvii che assicurano durante la salita. E naturalmente un atto di fede verso le proprie capacità fisiche e mentali. Che vanno coltivate con serietà e disciplina perché la montagna o la falesia non accettano improvvisazione e superficialità. Arrampicare significa cercare equilibri impossibili, a volte frutto di un richiamo muscolare improvviso o di un balzo da attimo fuggente per sfruttare energia dinamica e cambiare baricentro, ma il cuore più profondo resta il mito dell’armonia assoluta, quando il fisico “pensa” e lavora senza bisogno di obbedire alla mente. La punta del piede scopre una fessura impercettibile su cui issare l’intero corpo, le ultime falangi “inventano” una protuberanza invisibile dal basso che indica la prossima mossa. E la danza prosegue per l’uomo-geco in cerca della vetta. Uno dei rischi più frequenti è che l’avambraccio dia forfait e l’acido lattico accumulato nell’ascesa lo imprigioni nell’immobilismo. Braccio «acciaiato» dicono i climber. Ed è l’ennesima provocazione linguistica: un braccio d’acciaio per raccontare di un braccio inservibile. Ma è giusto così: l’arrampicata non è cosa per robot.
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Tratto da corriere della sera, articolo di Alberto Orioli